Anche i luoghi legati al cibo, alla loro preparazione e condivisione hanno un ruolo fondamentale e magico nella nostra esperienza e memoria, come emerge dalla lettura del romanzo di Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano, nelle pagine memorabili dedicate alla descrizione della cucina del Castello di Fratta.
«La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinito numero di lati molto diversi in grandezza, il quale s’alzava verso il cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra piĂą d’una voragine: oscuro anzi neri di una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde e delle guastade appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze,da armadi colossali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantitĂ incognita di gatti bigi e neri, che gli davano figura d’un laboratorio di streghe. –tutto ciò per la cucina. – Ma nel canto piĂą buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancor piĂą tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. LĂ un fumo denso e vorticoso, lĂ un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, lĂ sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi arcigne e sonnolente. Quello era il focolare e la curia domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l’Avemaria della sera, ed era cessato il brontolio dell’Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della luce. La vecchia cuoca accendeva quattro lampade ad un solo lucignolo; due ne appendeva sotto la cappa del focolare, e due ai lati d’una Madonna di Loreto. Percoteva poi ben bene con un enorme attizzatoio i tizzoni che si erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra una bracciata di rovi e di ginepro. Le lampade si rimandavano l’una all’altra il loro chiarore tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante e s’ergeva a spire vorticose fino alla spranga trasversale di due alari giganteschi borchiati di ottone, e agli abitanti serali della cucina scoprivano alla luce le loro diverse figure»
La rappresentazione del castello di Fratta contiene numerosi elementi realistici, nella minuta descrizione di parti dell’edificio, oggetti, abiti, ecc.: e del resto Nievo si è per essa ispirato alla propria conoscenza personale del castello di proprietà della nonna materna, a Colloredo di Monte Albano, a nord di Udine. Tuttavia l’effetto complessivo è tutt’altro che realistico: il castello diventa un mondo magico e straordinario (e come tale, naturalmente, non più esistente nel mondo contemporaneo, come Nievo rileva subito all’inizio), visto con gli occhi ingenui e la vivida fantasia dell’infanzia. Di fronte a tale sguardo, le cose si deformano, si ingigantiscono, acquistano una valenza assoluta ed esemplare: per il bambino, Fratta è il centro stesso del mondo, di cui riassume in sé gli aspetti più sublimi. Per esprimere tale centralità il narratore fa costante ricorso all’iperbole, che ingigantisce e dona valore esemplare ai minuti dettagli della vita quotidiana: il castello è una meraviglia che può competere con quelle del mondo antico; della sua mole possono dare appena una vaga idea il Duomo di Milano e San Pietro a Roma; il focolare sembra l’antro dell’inferno; non c’è un solo angolo simmetrico con gli altri ecc. dalla sproporzione tra la materia rappresentata e i sublimi termini di confronto nasce l’ironia: ma un’ironia particolare, che non è distruttiva e tale da annullare la meraviglia dello sguardo infantile, ma affettuoso, capace di renderla più viva e credibile; un’ironia che tempera gli eccessi del sublime senza negarli. Allo stesso effetto contribuisce la presenza di un lessico in cui il quotidiano si mescola con voci arcaiche o impiegate in accezioni particolari, nonché di metafore ardite, che evocano un’atmosfera remota e fiabesca.
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