Libertà di informazione in tempi di guerra, è possibile?

Ciò che i social ci nascondono: il filtro dei media sul conflitto Israele-Palestina.

Nel contesto intricato della lunga e complessa disputa tra Israele e Palestina, la libertà di stampa emerge come un pilastro fondamentale per la comprensione e la risoluzione del conflitto. Tuttavia, questa libertà è spesso minacciata da una serie di filtri usati dai media e dai telegiornali che non permettono la diffusione di informazioni oggettive sulle problematiche inerenti al conflitto.

Se non sei adeguatamente informato sullo scontro tra Israele e Palestina, ti consigliamo di guardare il video qui sotto linkato prima di continuare a leggere questo articolo.

 

Molto spesso sui media non vengono condivise informazioni che risultano fondamentali per assumere una posizione critica e una visione a 360 gradi sui conflitti attuali.
Nello scontro tra Hamas e le forze israeliane come in tutti i contesti di guerra, è in atto una dinamica di disinformazione da entrambe le fazione che influenza l’opinione pubblica. Numerosi giornalisti si impegnano attivamente ogni giorno, per testimoniare la brutalità della sanguinosa lotta che comporta la morte di numerosi civili innocenti.

Agli stessi telegiornali non è permesso diffondere notizie che non siano filtrate o approvate, affinche l’opinione pubblica venga a conoscenza solo di ciò che si vuole venga visto.
A molti giornalisti non è permesso lavorare sul campo per via del governo israeliano ed egiziano che non permette loro di entrare nella striscia di Gaza; l’accesso a internet è a loro negato, come a tutta la popolazione, e spesso i giornalisti sono costretti a collegarsi alle proprie auto o ad altri dispositivi, per ricaricare le batterie delle proprie videocamere.

I giornalisti che sono in prima linea e si mettono a rischio per riportare le notizie, vengono ostacolati dalle autorità israeliane, che da parte loro, fanno di tutto per impedire che le immagini, testimoni della verità, scavalchino il Muro.
Si tratta di un vero e proprio blackout mediatico che serve a occultare il più possibile le prove dei crimini di guerra di Tel Aviv.

Oltre a diffondere ampiamente la propria versione del conflitto, Israele è anche particolarmente attivo nel tenere la Striscia di Gaza lontana dagli occhi e dalle telecamere dei reporter stranieri. I media internazionali hanno difficoltà a documentare il destino delle popolazioni prigioniere dell’enclave palestinese.

Nel 2008, ad esempio, Israele ha deciso di estendere il blocco di Gaza ai giornalisti. I media hanno quindi dovuto accontentarsi delle immagini fornite dai corrispondenti palestinesi che si trovavano nella zona bombardata. Anche gli edifici che ospitano gli uffici della stampa estera non sono stati risparmiati dai bombardamenti.

Secondo quanto emerso dall’inchiesta dell’organizzazione, il 13 ottobre scorso Israele avrebbe deliberatamente attaccato la stampa con i razzi, uccidendo il giornalista di Reuters. Per Reporter senza frontiere l’attacco non può essere un caso o un errore. Israele prende di mira i giornalisti di proposito. Ad affermarlo è l’inchiesta indipendente di Reporter senza frontiere.

La guerra in corso a Gaza è una questione che coinvolge non solo Israele e la regione, ma anche il destino di tutti noi, ovunque ci troviamo. È una guerra che influenza il nostro futuro, che sta plasmando il mondo in cui cresceranno le prossime generazioni.
Un altro chiaro esempio di censura, avvenuto al di fuori delle due fazioni in conflitto, è la storia di Fadzai Madzingira, giornalista londinese che è stata licenziata dopo che sono state rese note da un sito di destra le sue opinioni apparentemente “estremiste” sulla guerra di Israele contro Gaza.

Da quando Tsahal ha deciso di bombardare a tappeto la Striscia di Gaza, l’offensiva militare è stata accompagnata da una campagna digitale a tutto campo, in una varietà di toni, lingue e media. Come simbolo di questa comunicazione a tutto campo, l’esercito israeliano è presente su tutti i social network.

Dal 7 ottobre gli utenti di alcuni videogiochi per smartphone molto popolari, accessibili a partire dai 3 anni, si sono trovati di fronte a clip prodotte dal governo israeliano al posto dei soliti noiosi spot pubblicitari. Il contenuto di questi video viola ampiamente le norme che regolano i contenuti pubblicitari sulle piattaforme online. Mostrano immagini molto crude di violenza e raccontano di abusi fisici perpetrati da Hamas; altri filmati, dal tono molto più marziale e minaccioso, promettono a chi “attacca” Israele che “pagherà un prezzo pesante”.

Hamas non è da meno nel suo costante desiderio di controllare le immagini. Nel 2017, ad esempio, Amnesty International si è indignata per l’arresto di due giornalisti, “impedendo ad altri professionisti dei media di svolgere liberamente il proprio lavoro” e imprigionato “almeno dodici palestinesi” per commenti critici postati su Facebook.

Nel 2020, Hamas – lo ha denunciato Reporters sans frontières – ha vietato ai giornalisti locali di lavorare per il canale saudita Al Arabiya.
I messaggi di propaganda di Hamas rimane la popolazione palestinese. I canali televisivi e radiofonici di Hamas, entrambi con sede a Gaza e denominati Al-Aqsa, offrono notiziari, fiction e persino programmi per bambini con pupazzi che muoiono per mano dell’esercito israeliano o che fanno commenti antisemiti.

L’obiettivo, per entrambi i contendenti, è sia promuovere le proprie capacità militari che conquistare l’opinione pubblica straniera alla propria causa.

La libertà di parola, l’importanza della copertura giornalistica in tempo di guerra, il diritto di informare e di essere informati sono i pilastri su cui si fonda la nostra società. Questi principi non conoscono confini nazionali, razze o religioni. Sono principi universali e rappresentano l’anima stessa della nostra civiltà.

Se desideri conoscere ulteriori approfondimenti sui rischi e le opportunità dei media e della rete, ti indirizziamo al video dedicato.

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