Mia nonna mi ha sempre detto che ogni casa racchiude una storia e che, a volte, queste sono le più belle: mi ha raccontato che ogni giorno quando tornava a casa da scuola appostato davanti alla porta trovava sempre presente ad attenderla il suo gattino, oppure della prima volta in cui sua madre, donna austera e rigida, le disse “Ti voglio bene”.

In tutte le case ogni giorno avvengono esperienze magnifiche: un amore che sboccia e si afferma, i genitori che assistono ai primi passi del figlio.

Ci sono, però, alcune case, che sembrano come tutte le altre, ma in realtà racchiudono storie di grande sofferenza, che facciamo fatica anche solo ad ascoltare.

Persone chiuse nelle loro abitazioni, intrappolate a vita sotto due leggere coperte, impossibilitate nella maggior parte dei casi anche solo a muoversi.

Chi le noterebbe?

Sono nell’autunno della loro vita, alcune di loro ne sono consapevoli, altre si trovano in uno stato di veglia, ma non hanno coscienza e la loro esistenza si limita alla ripetizione di alcuni movimenti automatici, come sbattere le palpebre, regalando ai parenti distrutti dal dolore piccole illusorie speranze.

Hanno le più disparate malattie: SLA, distrofia muscolare, malattie neurologiche o neurodegenerative e alle spalle grandi sofferenze, ma la maggior parte di loro ha una famiglia che cerca di aiutarli come può.

Proprio le emozioni dei parenti, in queste situazioni vengono spesso sottovalutate, ma riflettendo più a fondo ci accorgiamo che soffrono quasi quanto i malati stessi, che in alcuni casi si trovano costretti a cercare di convincere i loro cari che l’eutanasia sia la cosa migliore da fare.

Per una persona è complicato ascoltare queste parole e condividerle, specialmente per chi è giovane, ha una vita davanti e ancora tanta voglia di prendersi tutte le soddisfazioni che può, di non lasciare neanche un secondo al caso.

Non è semplice ascoltare qualcuno che dice: “Io ho deciso di morire”, ci sembra impossibile preferire la morte a qualsiasi altra cosa, perfino alla più crudele delle torture.

Ma queste non sono richieste prive di senso, non sono richieste egoistiche.

È la richiesta di una persona che ha visto la vita scivolargli via di mano, senza che potesse fermarsi, anche solo un istante, per respirare e provare a opporsi.

Di una persona che non chiede più aiuto perché ha fatto i conti con la realtà.

Di una persona che ha sofferto così tanto che ormai il dolore è scomparso e ha lasciato il posto a qualcosa di più lacerante, l’orrore per una vita disconosciuta.

È l’ultima richiesta di una persona, quella di morire.

 

Vincent Humbert

 

Una vita in foto

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