Con l’affermazione di Netflix nel mondo della produzione cinematografica, la politica del colosso americano ha suscitato non poche controversie nell’ambito della distribuzione cinematografica. Il caso di The Irishman (USA, 2019, regia di Martin Scorsese) ha avuto una serie di peculiarità che lo distinguono rispetto agli eventi passati di Roma (Messico, 2018, regia di Alfonso Cuarón) e Sulla mia pelle (Italia, 2018, regia di Alessio Cremonini.

 La pellicola è in proiezione in alcune sale dallo scorso 4 novembre per un periodo di poco superiore ai 20 giorni. Il pubblico italiano ha delle ottime ragioni per ritenersi fortunato, in quanto sarà il solo, insieme a quello americano, a ricevere una distribuzione sufficientemente diffusa lungo il proprio territorio. Per quanto riguarda il territorio varesino, l’associazione Filmstudio90 – per maggiori informazioni leggete l’articolo che abbiamo scritto a riguardo – ha deciso di portare l’opera, non aderendo alle politiche di boicottaggio messe in atto, invece, da altre associazioni dal funzionamento simile, mettendo in primo piano la necessità di proiettare un film che si prospetta grande in anticipo e il diritto, non indifferente, del pubblico di poterlo esperire in sala in tutta la sua pienezza.

 

Tratto dal libro I Heard You Paint Houses di Charles Brandt, The Irishman è una sorta di somma testamentaria della poetica scorsesiana. Film dalla lunghissima durata– si parla di quasi tre ore e mezza –, è il racconto in prima persona – elemento ricorrente nei film del regista italoamericano, un anziano Frank “The Irishman” Sheeran (Robert de Niro), sindacalista e mafioso americano membro della famiglia “Bufalino” . L’inizio della “carriera” di Frank avviene con l’incontro, cruciale, di Russell Bufalino (un grandioso Joe Pesci), boss mafioso che lo prende subito in simpatia e lo conduce all’interno del violento mondo malavitoso. Personaggio fondamentale per gli sviluppi della narrazione sarà Jimmy Hoffa (Al Pacino), sindacalista a capo della International Brotherhood of Teamsters e grande icona delle lotte sindacali americane negli anni ’60.

Lungi dall’essere un racconto epico dell’ascesa – e il collasso – di un uomo nel mondo malavitoso – Goodfellas – o pur sempre dalle tinteggiature criminali – The Wolf of Wall Street –, The Irishman è una pellicola in cui il cinismo e la violenza – pur sempre presenti – cedono man mano il passo all’introspezione , ora accennata, ora più evidente, dei personaggi. Pensiamo al rapporto tra Frank e le figlie – specialmente Peggy – e al rapporto tra Frank e Hoffa.

The Irishman è un’opera decadente, disillusa, in grado di demitizzare una certa mitologia che, attraverso la potenza visiva di certi ganster-movie, si è creata.

Tutto questo The Irishman è in grado di mostrarlo non rinunciando alla solita, debordante capacità espressiva del suo creatore. Degni di nota sono i frequenti jump-cut nel montaggio – eredità della Nouvelle Vague –, le costanti inquadrature fisse sui personaggi e gli immancabili piani sequenza.

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