“Prima di scrivere pensa, poi cerca di fare del tuo meglio” afferma Carlo Bartoli, presidente ODG Toscana e autore del libro “L’ultimo Tabù”.
Infatti, un ultimo tabù persiste ancora nella società odierna: il suicidio, pratica ancora avvolta nel mistero.
Se ne parla solo in occasione di singoli episodi quando, in realtà, questo fenomeno rappresenta la seconda causa di morte tra giovani e adolescenti, in particolare nella fascia di età compresa tra i 16 e i 25 anni.
Il rapporto con questo fatto sociale è cambiato con il tempo: fino a metà del Settecento il corpo del suicida veniva imbalsamato, per poi essere processato e sottoposto ad esorcismo poiché si reputava che colui che si privava della propria esistenza fosse “abitato da un demone”.
Successivamente il suicidio venne proibito affinché la vita di una persona dipendesse dallo Stato, in quanto necessitava della forza degli individui per poter svolgere le varie funzioni nel Paese e per produrre beni.
Al giorno d’oggi il tema del suicidio viene affrontato quotidianamente grazie alle alte tecnologie di cui disponiamo: i giornali, i social network e la televisione.
L’unico problema è che se ne parla in modo errato.
Se si desidera creare un articolo su un caso di suicidio non bisogna usare un lessico che criminalizzi questo fatto e non è necessario dare delle informazioni aggiuntive e fuori luogo.
È opportuna una valutazione degli argomenti da trattare e la cosa migliore è confrontarsi con i propri colleghi su come affrontare questo tema, prestando attenzione al peso dei dati raccolti.
È possibile anche individuare i social network stessi come mezzi: è sufficiente riflettere sul fenomeno del gioco della Blue Whale e su casi di suicidio online, come quello di Oceane, diciannovenne francese, che ha trasmesso in diretta il suo suicidio via Periscope, riprendendo con la videocamera del suo cellulare il treno che la travolgeva sui binari.
Come poter ridurre questo tasso di morte volontaria che, con il passare del tempo, cresce spaventosamente?
E’ difficile trovare una soluzione: sicuramente la sensibilizzazione a tale tema, l’apertura di sportelli d’ascolto e la possibilità di offrire supporto psicologico a chi ne necessita sono ottimi mezzi per tentare di arginare questo fenomeno e rompere la bolla di vetro in cui gli individui in difficoltà si isolano.
Ma non sono sufficienti.
La vera domanda è: esiste un modo per restituire la felicità a chi crede di averla perduta per sempre?

 

 

 

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