Tra libertà e repressione: il caso della Corea del Nord

Utilizzando  i media, internet  e il web per fare ricerca su una realtà che ci rimane in gran parte estranea. Un articolo alla scoperta della “non libertà” della Corea del Nord

 

Contesto storico

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Corea del Nord è diventata un regime comunista sotto Kim Il-sung, mentre la Corea del Sud è diventata democratica con Syngman Rhee. La guerra di Corea, iniziata nel 1950, ha portato ad una divisione permanente tra Nord e Sud, con la Corea del Nord che ha adottato un governo socialista autoritario. Nel corso degli anni, la Corea del Nord ha affrontato sfide come la carenza alimentare, le tensioni internazionali e le sanzioni economiche. Il paese è noto per il suo isolamento dal resto del mondo e per il suo controverso programma nucleare. 

La società coreana, al giorno d’oggi, è afflitta da gravi condizioni di vita e corruzione ed è oppressa dalla dittatura con un forte ateismo di Stato. La costituzione istituisce figure come il “Presidente Eterno” e il “Segretario Generale Eterno.” Molte organizzazioni internazionali denunciano la Corea del Nord per le brutali condizioni di vita e per la violazione dei diritti umani, dove i detenuti affrontano lavori simili alla schiavitù e subiscono torture. Il regime nega qualsiasi accusa e respinge le prove dei campi di concentramento. Nonostante l’alta alfabetizzazione, i media sono fortemente controllati, la libertà di stampa è limitata, e il sistema sanitario, pur essendo universalistico, è carente di risorse. 

Dopo la presa di potere di Kim Jong-un, si è registrata una diminuzione dei disertori, attribuita alle sfide di integrazione nella Corea del Sud e alle minacce del regime ai familiari dei disertori. 

Chi viene sorpreso a fare una telefonata internazionale con un ‘cellulare cinese’ rischia di essere inviato in una struttura detentiva per la riabilitazione o persino in un campo di prigionia politica. I familiari che vivono all’estero possono provare a far entrare in Corea del Nord ‘cellulari cinesi’ e relative sim ma i destinatari corrono grandi rischi. Lo si fa, di solito, pagando una tangente ai soldati che presidiano il confine. Con l’inasprimento dei controlli alla frontiera, il prezzo delle tangenti è aumentato fino a raggiungere 500 dollari. 

 

Sorveglianza costante

Oltre alla tecnologia sofisticata, resta prevalente la sorveglianza personale. Jong-hee, fuggito dalla Corea del Nord nel 2014, ha raccontato: “Ognuno controlla un altro, nella vita condominiale, nei luoghi di lavoro, la gente si sorveglia a vicenda.”

Le autorità controllano tutti i flussi di informazioni e presentano al mondo la propaganda di stato. Per avere un’idea della realtà nordcoreana gli analisti si rivolgono alle persone che sono fuggite o hanno disertato prendendosi enormi rischi. 

Il ricercatore nordcoreano Kim Suk-Han ha usato internet cinque volte quando viveva nel paese. Ai ricercatori ha raccontato che in precedenza aveva avuto accesso alla rete durante un viaggio in Cina e per questo aveva grandi aspettative, che però si sono scontrate con un accesso limitato e una sorveglianza costante.

“Un bibliotecario siede tra due utenti e controlla continuamente quello che stanno cercando le persone su entrambe i lati – ha raccontato Kim ai ricercatori – ogni cinque minuti, lo schermo si blocca automaticamente e il bibliotecario deve eseguire un’autenticazione con le impronte digitali che consente di continuare a usare internet”.

Kim aggiunge che gli utenti potevano usare internet per un’ora e dovevano chiedere un nuovo permesso se volevano più tempo. Per ottenere dalle autorità l’autorizzazione a usare internet servono circa due giorni, e vari funzionari devono approvare la richiesta. Chi fa domanda troppo spesso è costretto ad aspettare.

Un altro ha detto di non conoscere “il concetto di wi-fi”, né tantomeno cosa sia Google.

Il numero di dispositivi digitali in Corea del Nord è aumentato negli ultimi dieci anni. Circa il 50-80 per cento degli adulti oggi possiede un telefono cellulare che consente di inviare messaggi e chiamare i familiari. Tuttavia, l’uso di questi dispositivi è attentamente controllato: la velocità della connessione dati è bassa, i dispositivi fanno automaticamente degli screenshot ogni pochi minuti e vengono visualizzati solo contenuti approvati dal governo. Ma quando si parla di accesso a internet la situazione è di gran lunga peggiore. 

Farsi, quindi, un quadro accurato di quello che accade all’interno dello paese isolato, governato da Kim Jong Un, è estremamente difficile. 

 

L’intranet locale

Se da una parte l’accesso a internet è disponibile per poche migliaia di esponenti dell’élite, l’intranet locale è marginalmente più accessibile, almeno in teoria. Per aumentare la libertà di internet, Pscore (“People for Successful COrean REunification”, “Gente che lotta per la riunificazione delle due Coree”) indica una ventina di raccomandazioni, rivolte sia alla Corea del Nord che agli altri paesi. Il rapporto dell’organizzazione pone l’accento sulla necessità di una maggiore connettività all’interno della Corea del Nord, invitando il paese a smettere di monitorare i suoi cittadini e a collegare la rete intranet all’internet globale. Nel caso in cui non fosse possibile fornire una connessione internet in piena regola, il modello di rete censurata adottato per esempio dalla Cina rappresenterebbe comunque un’opzione migliore.

Nam, segretario generale del Pscore, sottolinea che un maggiore accesso alla rete potrebbe favorire l’assistenza sanitaria e l’istruzione e migliorare la situazione legata ai diritti umani, come la libertà di espressione, di associazione e di riunione pacifica.

Gli organismi ufficiali sostengono che l’accesso a internet è un diritto umano, mentre le Nazioni Unite affermano che la piena connettività dovrebbe essere raggiunta entro il 2030. “Il vero problema è come tradurre questi impegni in realtà”, come afferma Barbora Bukovská dell’organizzazione per i diritti umani Article 19. Secondo Bukovská, vista la precarietà dei diritti umani in Corea del Nord, imporre il diritto all’accesso a internet a livello globale probabilmente non cambierebbe di molto le cose difatti prima servirebbero importanti cambiamenti all’interno dei confini del paese.

 

Interviste

Abbiamo voluto approfondire il tema trattato con persone consapevoli di quella che è la realtà del giornalismo così da conoscere la loro visione e avere un parere professionale. Qui a seguito alcune delle loro opinioni.  

Roberta Bertolini: “Sicuramente avrei paura data l’età e probabilmente cambierei mestiere; in alternativa cercherei di non mettermi contro il regime. Se invece fossi agli inizi di carriera, forse farei diversamente: userei i social come mezzo principale per portare al di fuori ciò che accade all’interno.”

Roberto Morandi: “Lavorare contro le regole non lo farei. L’unico modo sarebbe fornire fonti a persone esterne, il che rimane comunque un’impresa complessa.” 

Michele Mancino (vice direttore VareseNews): “Non avere paura sarebbe da irresponsabili verso sé stessi e verso gli altri. Il nostro lavoro in quella determinata condizione sembra impossibile. Probabilmente sarebbe meglio svolgere un lavoro non esplicito ma più nascosto e velato.” 

Andrea Camurani: “Un giornalista, in Corea del Nord, non può praticare il proprio mestiere senza l’appoggio e la sorveglianza del governo. Anche volendo essere anticonformista, ci sarebbe poco margine d’azione. La domanda che ci dobbiamo porre è se essere giornalista in quella situazione significa essere vittima o essere complice.”

Roberto Varvara: “Il mestiere del giornalista nasce dalla possibilità di essere liberi di esprimersi e sotto un regime dittatoriale non è possibile. E’ un ossimoro fare del giornalismo in quello Stato, così serrato e limitante.  Avere coraggio è difficile, nonostante questo sappiamo che i martiri del giornalismo sono moltissimi al giorno d’oggi. Il giornalismo, quindi, a mio parere, non potrebbe assecondare la dittatura.”

Jule Busch: “Essendo nata e cresciuta nella Germania dell’est capisco cosa significa dover sottostare ad un regime rigido come quello coreano. Ora, vivendo nel mondo occidentale siamo cresciuti con la consapevolezza che la libertà sia un diritto: quando tu cresci con una educazione dittatoriale, invece, non hai gli strumenti mentali per mettere in dubbio ciò che ti viene impartito. Ci stupiamo della loro realtà militarizzata ma dobbiamo essere consapevoli che sono a conoscenza solo ed esclusivamente di essa. Probabilmente sarei anche io stessa vittima del regime e svolgerei la professione da giornalista sottostando alla dittatura.”

Francesco Mazzoleni: https://youtu.be/OkZtVzscclo

Marco Giovannelli (direttore di VareseNews): “Al di là della Corea ci sono altri paesi dove è complicato fare giornalismo, chi cerca di raccontare è consapevole dei rischi a cui va incontro: anche in Italia abbiamo vissuto una situazione simile, durante il periodo del Fascismo, in cui la libertà di stampa è stata messa a dura prova. Sincerante non è semplice dare risposta al quesito, bisogna avere la consapevolezza che si rischia la vita propria e quella delle persone che hai accanto. Nel nostro paese, forse, cercherei di esercitare la mia attività, nei limiti della sicurezza.”

In aggiunta, avendo la possibilità di confrontarci con il Direttore, abbiamo colto l’occasione e gli abbiamo chiesto la sua visione sulla possibile regressione o progressione del giornalismo nel futuro.

“Non si tratta di regressione e progressione, l’importante è avere maggiore  consapevolezza e conoscenza, così da poter dare risposte più concrete. Avendo più trasparenza c’è la possibilità di conoscere i meccanismi, ma questo è in parte impedito dal fatto che i meccanismi stessi sono interni a sistemi non “smontabili”. Infatti la differenza sta nel trovare il responsabile di un errore: se in un articolo si riscontrasse una svista, sarebbe facile da ricondurre al responsabile; invece se una piattaforma produce uno sbaglio non si potrebbe risalire facilmente al colpevole.” 

In conclusione, dopo aver sentito i pareri dei più esperti del mestiere, abbiamo voluto raccogliere il pensiero del sindaco di Varese, Davide Galimberti.

“Sicuramente la domanda non è semplice per 2 aspetti: in primis non sono giornalista e non ho mai vissuto una situazione di oppressione ma per come sono fatto dico che cercherei di scalfire il regime attraverso l’attività giornalistica. In maniera molto puntuale proverei a parlare alle menti più interessanti ed influenti del paese per cercare di impostare un percorso di cambiamento.”

 

Dunque…

Abbiamo la possibilità di conoscere,  di informarci e di sapere, anche se non nella sua completezza, la realtà del mondo. C’è chi non le ha queste possibilità: vive con una visione unidirezionale della vita, consapevole soltanto di quella che è la sua realtà.  Anche noi stessi spesso scegliamo di avere una sola visione del nostro, di ciò che è bello e non di ciò che è complicato. Non limitiamoci, utilizziamo internet nel migliore dei modi: ogni strumento che ci sembra scontato per molti non lo è. Da ciò comprendiamo come ognuno di noi abbia la sua consapevolezza della realtà. Apriamo, quindi, la nostra mente a visioni diverse del mondo.

 



 












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