“La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o qualcosa che sta dentro di noi” 

Josè Saramango 

Tutto il periodo della quarantena si può dividere in tre fasi che tutti noi, prima o dopo, abbiamo attraversato. 

La prima è certamente quella fase di sconvolgimento da cui siamo stati travolti nei primissimi mesi, febbraio e marzo. Ci ponevamo mille domande avendo risposte sempre differenti tra loro: il governo diceva “state a casa è solo un’influenza che passerà”, i virologi dicevano che si trattava di una semplice polmonite, mentre le persone iniziavano a cadere come mosche. 

Successivamente dopo esserci risvegliati da questa nostra paralisi causata dallo shock iniziale, presi dal panico, abbiamo iniziato ad assaltare i supermercati, come se il mondo dovesse finire da un giorno all’altro, svuotando gli scaffali di tutti i beni primari tra cui farina e lievito, dal momento che tutti si erano ormai improvvisati chef e panettieri. 

L’ultima è tuttavia la fase più triste: ormai sconfortati dalla situazione che non cessava a smettere siamo caduti in una sorta di depressione collettiva. Dalle mille videochiamate che facevamo al giorno per occupare il nostro tempo, siamo passati a chiudere il telefono dentro il cassetto e dimenticarcelo per tutta la giornata. Non solo gente adulta è caduta in questa apatia e tristezza, ma soprattutto i giovani adolescenti che si vedevano primati della loro vita, perché nessuno darà loro indietro il tempo perduto.

 

 

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