“Sentirsi come una corda tesa”, “stare sulla corda”…. queste espressioni metaforiche sembrano proprio fare letteralmente parte della mia routine. Pratico lo studio del violino, come già mi è capitato di ricordare, e in questo caso mi destreggio con le dita su quattro corde che è tutt’altro che facile tenere sotto controllo. Tuttavia, fino a qualche tempo fa, un’altra corda mi dava del filo da torcere…quella del mio arco!
Ho iniziato a frequentare l’ambiente di tiro con l’arco quando ero alle elementari. Era uno sport che in famiglia praticavano mio papà – arciere amatoriale – e, soprattutto, mio fratello Francesco, all’epoca una giovane promessa. La mia partecipazione, a dire il vero, è stata dettata più dalla curiosità e dal desiderio di stare tra “sportivi” che non da vocazione autentica. Avevo, come ogni arciere che si rispetti, la mia attrezzatura personale di cui andavo fierissimo: l’arco, la faretra con le frecce, la dragona, ovvero un laccio di cuoio che serve a reggere l’arco dopo il tiro, una patella di pelle per proteggere le dita, il parabraccio e, per le grandi occasioni, la divisa con i colori della compagnia. Ho avuto l’onore di fare parte della Compagnia Arcieri Monica, per gli addetti ai lavori meglio conosciuta come “la compagnia dei Frangilli”, perchè papà Frangilli è stato l’allenatore di Michele, il nostro meraviglioso oro a squadre alle olimpiadi di Londra del 2012. Ricordo ancora l’emozione di quell’estate: seguivo le gare dal mare, dove ero in vacanza con la mia famiglia. Tutti incollati allo schermo del televisore in albergo e quando Michele ha scoccato la freccia decisiva della vittoria, siamo saltati dalle poltrone urlando. All’inizio gli altri ospiti connazionali ci hanno guardato un po’ perpelessi. “Va bene l’orgoglio patriottico”, hanno pensato, “ma questi forse esagerano ”; poi abbiamo spiegato le ragioni del nostro trasporto e tutti si sono congratulati con noi, quasi fosse anche merito nostro. Che bello! Tutti in piedi con la mano sul cuore quando hanno premiato Frangilli, Gagliazzo e Nespoli al suono dell’inno nazionale e poi un’ emozione ancora più grande quando abbiamo parlato con Michele al telefono, praticamente in diretta.
Conservo di questa esperienza dei bei ricordi. Allora ero piccolo e partecipavo alle gare con impegno ma al tempo stesso con la leggerezza tipica dei bambini. I grandi attorno a me, invece, erano piuttosto nervosi: chi faceva training autogeno, chi preferiva starsene in disparte, chi aveva i propri gesti scaramatici da ripetere quasi con ossessione prima del tiro. E’ uno sport che richiede molto autocontrollo, un’attività che definirei cerebrale più che sportiva in senso tradizionale, dato che di movimento se ne fa davvero poco. Tuttavia, per me che preferisco i giochi di squadra dinamici in cui interagire con i compagni, non era il più adatto. Nel gioco, infatti, mi piace condividere l’azione con gli altri, in modo che alla fine il risultato, quale che esso sia, derivi dal contributo di tutti. Anche quando suono, del resto, mi diverto di più quando ci esibiamo in orchestra.
Raffaele Morandi 3F
UN PO’ DI STORIA
Il Tiro con l’arco è una disciplina antica, si ritiene infatti che la prima raffigurazione di un arco si possa far risalire a circa trentamila anni fa, quando veniva utilizzato come strumento di caccia per colpire le prede da notevole distanza.
Come disciplina olimpica, compare la prima volta nei giochi Olimpici di Parigi del 1900 e, dopo una lunga esclusione, fu reinserito alle Olimpiadi di Monaco del 1972.
In Italia iniziò ad essere praticato come sport negli anni ’30, sotto il regime Fascista, ed era la disciplina riservata alle “Giovani italiane”. Fu organizzato anche un campionato femminile promosso dall’ Accademia di educazione fisica di Orvieto.
Nel 1956 a Treviso prese forma la prima società (“Compagnia”) italiana e iniziarono ad essere organizzate le prime competizioni, aperte ad entrambi i sessi.
Vi sono gare sia nazionali che internazionali, suddivise in diverse prove in base alla tipologia di gara : FITA (gare all’aperto con distanze conosciute), UNDERFIELD (gare all’aperto con distanze conosciute e sconosciute), INDOOR (gare al chiuso con distanza singola).
Tipologie di Archi:
LOUNGBOW: è l’arco più semplice, composto solamente da un’asta di legno particolare lavorata e messa in tensione tramite la corda; il libraggio cambia da arco ad arco ed è modificato dall’allungo dell’arciere.
ARCO NUDO: viene utilizzato nella maggior parte dei casi per insegnare la disciplina del tiro con l’arco ai neofiti; è composto da un Riser, 2 Flettenti, un Rest, da dei pesi aggiunti, e alcune volte è presente anche un Bottone.
ARCO OLIMPICO: è l’arco principale, è l’unico che viene utilizzato nelle Olimpiadi; come struttura è molto simile o uguale all’arco Nudo, cui s’aggiunge un Mirino, un Clicker e lo Stabilizzatore (centrale e laterale); è di precisione molto elevata ma leggermente inferiore al Coumpound.
COMPOUND: arco particolare; molto più corto, ha una precisione e una potenza maggiori rispetto all’ olimpico. Molto spesso viene utilizzato per andare a caccia.
Oltre all’attrezzatura dell’Olimpico possiede anche una Bolla e una Diottra con ingrandimento fino ad un MAX di 0,45x.
UN ARCO CHE VIENE DA MOLTO LONTANO:
KYUDO, UN ARCO TESO TRA CIELO E TERRA
Il Kyudo è il tiro con l’arco praticato in Giappone, dove non ci si cruccia di colpire il bersaglio come noi occidentali. II Kyudo, o Shado è l’arte marziale giapponese che più incarna in sé i principi Zen dell’annullamento della personalità. La pratica del tiro con l’arco lungo non persegue fini pratici. Non limita il suo essere ad una cura di forme estetiche. II complesso ma elegante cerimoniale che culmina con il sibilo della freccia che fende l’aria è codificato da ferree regole di etichetta a di comportamento le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
La tecnica gioca un ruolo marginale, nel senso che deve essere assorbita a livello inconscio e applicata con la naturalezza a spontaneità dovuta. L’allenamento è perciò lento, duro e faticoso.
Kyu-jutsu, arco per la guerra
Nell’antico Giappone feudale, i guerrieri che praticavano il Kyu-jutsu venivano addestrati e disciplinati in modo tale da sviluppare un alto grado di indipendenza visiva e forte capacità di percezione.
II Guerriero doveva essere in grado di «percepire» le ombre dei nemici in movimento, anticipare gli agguati e vedere con chiarezza i punti deboli della corazza del nemico.
In questo contesto l’arte dell’arco si avvaleva di pratiche di concentrazione e di controllo mentale che già erano antiche nel momento della loro diffusione dalla Cina in Giappone.
Attraverso il rituale Chan (in cinese, Zen in giapponese) i guerrieri del Sol levante riuscivano a creare in sé uno stato mentale di completa indifferenza a calma che permetteva loro di scagliare con la massima efficienza le frecce anche nel caos di una battaglia.
L’azione «santa» di un grande maestro
In questa descrizione dell’azione del maestro Anzawa, uno dei più grandi maestri di Kyudo morto nel 1970 ad ottantre anni, traspare chiara la «santità» dell’azione coordinata che conduce la freccia verso il bersaglio.
Sensei Anzawa, ottantatre anni, si appresta alla cerimonia del Shado. La sua casa, nonostante sia vicina alla città, non risente del caos a del rumore.
Il dischiudersi di un fiore
La freccia è rilasciata come il dischiudersi di un fiore. Il maestro rimane immobile, segue con lo spirito il suo volo. Una Freccia, una Vita: una perfetta azione si è conclusa. Sensei Anzawa è morto; le sue parole riassumono emblematicamente lo spirito dello Zen.
Bisogna mirare oltre il bersaglio, la nostra vita, il nostro spirito volano con la freccia.
E se la freccia è ben scoccata non vi è mai fine.
Vittorio Brizzi
(dalla rivista “Tiro con l’arco”)
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