Perché i nostri soldati sono stati in Afghanistan? Cosa hanno fatto così lontano dalla madrepatria? Queste solo alcune delle domande che le persone si sono poste dopo i recenti avvenimenti in quel lontano paese, forse perché troppo giovani per ricordare, o perché sono fatti ormai così lontani da essere stati dimenticati.

Ne abbiamo parlato con il Tenente Colonello Gianluca Greco, portavoce del Comando di Reazione Rapida della NATO in Italia, che ci ha raccontato la sua esperienza.

L’intervista

Ripartiamo dall’inizio: l’11 settembre 2001 ci fu l’attacco alle torri gemelle e il mondo cambiò. I terroristi avevano dimostrato la loro capacità di attaccare il cuore dell’occidente. La NATO in virtù degli accordi presi di difesa collettiva dovette reagire. Iniziarono così le missioni in Afghanistan, un paese fino a quel momento poco conosciuto, che negli ultimi anni aveva vissuto per anni l’occupazione sovietica e che dal 1996 si trovava sotto il controllo dei talebani.

Quando i soldati dell’alleanza atlantica giunsero in Afghanistan trovarono un popolo quasi completamente privo dei suoi diritti umani. In particolare le donne, così come in altri paesi di quella regione, non erano considerate nella vita pubblica, non erano libere di circolare, non potevano partecipare alla vita politica, prendendo decisioni per il futuro del loro paese e non avevano alcuna possibilità di ricevere un’istruzione. Erano quindi prive di quei diritti civili, politici e sociali che ogni essere umano merita.

Il portavoce ci ha raccontato come purtroppo molte persone sono convinte che i soldati, una volta giunti in un territorio, con estrema facilità riescano a cambiare radicalmente uno stato che in realtà ha una propria storia, una propria cultura e delle proprie tradizioni. Per riuscire a portare un effettivo cambiamento i militari devono essere capiti dalla popolazione, devono creare un rapporto di fiducia con essa, in modo tale che ciò che viene costruito non sia distrutto il giorno dopo.

Non si può quindi pretendere che, in un paese in cui, a causa della legge coranica, le donne devono rimanere chiuse in casa per non disonorare il nome della famiglia, avvenga un cambiamento radicale nell’arco di qualche anno, perché questo processo di innovazione richiede riforme strutturate ed efficaci che richiedono tempo per essere applicate. Questo stesso principio vale, ad esempio, per la diffusione dei valori democratici. Non si può pretendere di innestare in vent’anni un processo democratico che in Europa ha richiesto secoli per iniziare a dare dei risultati.

Per far si che questi cambiamenti siano efficaci e duraturi, si deve entrare nella mentalità delle persone, fargli capire che si è li per loro. Poco possono fare i gruppi specializzati come i “female engagement teams”, teams specializzati dell’Esercito composti da sole donne con il compito di interagire con le donne nel paese, se da loro stesse non proviene il desiderio di cambiamento.

Secondo il Portavoce del Comando NATO di Milano, in Afghanistan è stato piantato un seme, il seme dei diritti e della libertà. La pianta aveva prodotto dei germogli. Ora bisogna sperare che le radici siano forti e che la pianta riesca a rigermogliare. Tutto dipenderà dalla volontà del popolo afghano di mettere in pratica quelle riforme che l’occidente ha mostrato per dare loro un futuro prospero, in cui siano rispettati veramente tutti i diritti umani.

La famosa reporter della CNN Clarissa Ward a sinistra in una zona protetta e a destra per le strade di Kabul

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